Valanghe di letame sul PDL, quando i fiori?
Il risultato dei ballottaggi delle amministrative nelle grandi città capoluogo è stata una batosta per il Popolo della Libertà e in particolar modo per Silvio Berlusconi che, anche se non lo ammetterà mai, ci ha messo la faccia e il carico da novanta facendo assumere a delle elezioni locali un grande valore nazionale. Una celeberrima canzone di Fabrizio De Andrè diceva “dal diamante non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Per ora di fiori se ne vedono ben pochi ma di letame ce n’è in abbondanza nel PDL.
Bondi si è già dimesso prima che glielo chiedesse Bersani che giustamente ha iniziato dal suo capo, Berlusconi.
Berlusconi probabilmente non si dimetterà mai ma sarebbe ancor più distruttivo per l’attuale maggioranza e per il governo se non si facesse spuntare almeno un piccolo germoglio da questa valanga di maleodorante letame.
Si dirà che al di là del peso nazionale che gli si vuol dare da una parte e dall’altra rimangono pur sempre elezioni locali particolari, dove non si capisce nemmeno perché esulti il PD visto che i candidati che hanno sfondato sono quelli che hanno schiantato i democratici alle primarie del centrosinistra (non ce n’è nemmeno uno del PD) ma sarebbe deviare l’attenzione dalla vera questione: il Popolo della Libertà va raso al suolo e ricostruito partendo da presupposti diversi.
In queste ore si parla di cambiare il nome, di cambiare il simbolo, di fare le primarie, congressi, stati generali, tutte cose che agli italiani interessano poco, che servono sono a sciacquare la coscienza e alimentare la voglia di rivalsa di chi adesso non è annoverato tra i “colonnelli” del partito ma ambirebbe a diventarlo.
L’unico che può cambiare il partito con la rapidità che richiede questo momento è Silvio Berlusconi, magari facendo un passo indietro, magari togliendo la propria figura ingombrante in primo piano e trasformandola in una figura di supervisore, di “padre nobile”, di collante tra le diverse anime ma senza ruoli operativi.
Non si creda al nuovo che avanza o che deve per forza avanzare come si sbandiera nel centrosinistra, ma si facciano da parte coloro che autoproclamatisi condottieri del partito lo hanno sì condotto ma verso il precipizio con esercizi di arroganza e figuracce a ripetizione.
Il Paese non ha un’opposizione, non può permettersi di non avere anche una maggioranza.
Forse Pisapia durerà poco visto che è sostenuto da forze molto diverse e in parte anche litigiose, un microcosmo che riproduce in piccolo i difetti del Governo Prodi.
Forse De Magistris è solo frutto di una voglia di antipolitica che può bastare per suscitare entusiasmi ma non basta per amministrare Napoli e tutti i suoi enormi problemi.
Forse sono solo elezioni locali e non è cambiato nessun “vento”. Forse. Ma nonostante tutto il PDL deve cambiare, per i suoi elettori che ci hanno creduto e ci credono e non sono tutti dei decerebrati al soldo del Cavaliere, lo deve ad un Italia che non può continuare a galleggiare su una barca che ondeggia nei marosi dell’eterno conflitto mentre le altre nazioni europee viaggiano a vele spiegate verso la modernità.
Se il prezzo da pagare per dare all’Italia finalmente un centrodestra liberale, riformista, attento al mercato e alla pressione fiscale, liberalizzatore e aperto alle nuove tecnologie è quello di non vincere subito per costruire un futuro, ben venga, anche senza il padre carismatico perché la gratitudine è dovuta ma la sudditanza alla lunga è un freno alla modernità.
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