Il bugiardo con le gambe corte
In un paese normale Stato e mafia sarebbero due ossimori e cioè due termini inavvicinabili data la loro antitesi; ma noi lo sappiamo, non siamo un paese normale. Tanto più che a far convergere le due organizzazioni ci ha pensato Totò Riina (non di certo un quacquaracquà) che il 19 luglio 2009, la cui data rappresentava il diciassettesimo anniversario della strage di via D’amelio in cui perdeva la vita Paolo Borsellino, ha dichiarato: “Paolo Borsellino lo ammazzarono loro”. Per loro intende gli uomini dello stato, verso i quali aggiunge: ”Non guardate sempre e solo a me, guardatevi dentro anche a voi”. Per voi Riina intende sempre gli uomini dello Stato. Questo è curioso poiché si incrociano i destini di cinque uomini, Berlusconi, Mangano, Dell’Utri, Falcone e Borsellino. Quest’ultimo, nella sua ultima intervista filmata rilasciata il 21 maggio 1992 a due giornalisti francesi Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi parla dei rapporti che la mafia (attraverso Vittorio Mangano ma non solo) aveva con Marcello Dell’Utri e con Silvio Berlusconi, e cioè con il palermitano che di li a poco avrebbe fondato Forza Italia che poi sarà il partito di maggioranza nelle elezioni del 94 (e lo è ancora oggi) e con Silvio Berlusconi che diventerà Presidente del Consiglio (e lo è ancora oggi). Borsellino definirà Vittorio Mangano e cioè lo stalliere che per due anni ha abitato nella villa di Berlusconi, la villa di Arcore, “la testa di ponte della mafia al nord”. Ma andiamo con ordine: nel 1963 un giovane ventisettenne Silvio Berlusconi fonda la Edilnord Sas con l’aiuto del finanziere Carlo Rasini, il quale gli concederà i primi crediti e le prime fideiussioni. Questo è curioso poiché la Banca Rasini di cui Carlo era fondatore nei primi anni ‘50 era utilizzata come deposito dei denari della mafia. Risulteranno essere correntisti della Banca milanese Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, nonché i narcotrafficanti Salvatore Enea, Luigi Monti e Antonio Virgilio, legati a Vittorio Mangano la “testa di ponte della mafia al nord” che lavorerà nella villa di Berlusconi dal 1973 al 1975. Nel 1964 Silvio Berlusconi assume come segretario particolare un suo ex collega d’università un certo Marcello Dell’Utri, palermitano, allenatore di calcio del Torrescalla, sponsorizzata dall’amico Silvio. L’anno successivo Dell’Utri lascia Berlusconi per trasferirsi a Roma dove sarà direttore sportivo d’un centro dell’Opus Dei.
Nel 1967 torna nella sua Palermo dove fa l’allenatore dell’Athletic Club Bacigalupo, dove conobbe il tuttofare della squadra Vittorio Mangano, e Gaetano Cinà, proprietario di una lavanderia palermitana imparentato con i boss mafiosi Stefano Bontade e Mimmo Teresi, considerato un uomo d’onore della famiglia mafiosa dei Malaspina. Nel 1973 Silvio Berlusconi acquista da Anna Maria Casati Stampa, ereditiera minorenne della famiglia nobiliare lombarda rimasta orfana nel 1970, la settecentesca Villa San Martino ad Arcore, con quadri d’autore, parco di un milione di metri quadrati, campi da tennis, maneggio, scuderie, due piscine, centinaia di ettari di terreni. Annamaria essendo minorenne è affidata e seguita da un pro-tutore, l’avvocato Cesare Previti, già amico di Silvio Berlusconi. Grazie alla fortunata coincidenza, Previti, che dovrebbe seguire gli interessi dell’orfana, trova saggio vendere la villa al suo amico imprenditore milanese, per la cifra di 500 milioni di lire. Una cifra irrisoria dato che la villa era stata valutata negli anni ’80 per 7,3 miliardi di lire. Dopo l’acquisto della villa, Berlusconi richiama a Milano e alle proprie dipendenze Marcello Dell’Utri, dove seguirà i lavori di ristrutturazione della villa. Il 7 luglio del ’74 Dell’Utri ingaggia come fattore della villa Vittorio Mangano, segnalatogli “dall’amico di una vita” Cinà. Mangano appena s’accomoda nella villa di Berlusconi è un giovane e promettente mafioso palermitano della famiglia di Porta Nuova, noto alle cronache giudiziarie e alle forze di polizia per tre arresti, varie denunce e condanne. Già diffidato nel 1967 come “persona pericolosa”, indagato per reati che vanno dalla ricettazione alla tentata estorsione, fermato nel 1972 in auto con un mafioso trafficante di droga. Secondo i Carabinieri di Arcore, “Dell’Utri ha chiamato Mangano pur essendo perfettamente a conoscenza del suo poco corretto passato”. Ufficialmente “fattore” e “stalliere”, in realtà Mangano fa il guardaspalle di Berlusconi, accompagna i suoi figli a scuola e cura la sicurezza della villa.
Secondo il pentito Francesco Di Carlo, l’assunzione è suggellata da un incontro a Milano organizzato da Dell’Utri, con Berlusconi, il boss Bontate (capo di Cosa Nostra), Teresi e lo stesso Di Carlo. Il 26 maggio del ’75 esplode una bomba nella casa che Berlusconi ha in via Rovani a Milano. Le indagini non porteranno all’attentatore ma dall’accusa si può leggere che la Fininvest comincia a versare somme di denaro a Cosa Nostra (Dell’Utri e Cinà che lo consegnano a titolo di “regalo” ai boss Bontade e Teresi). Nell’ottobre del ’76 un giornale lombardo scrive che c’è un mafioso a casa di Berlusconi. Mangano riconoscendosi in quell’identikit lascia la villa, sollecitato nel non farlo da Dell’Utri e Confalonieri i quali fecero di tutto per trattenerlo. Dopo un breve periodo a Palermo, Mangano torna a Milano, non a casa di Berlusconi questa volta, ma all’hotel Duca di York da dove gestisce il traffico di droga e il riciclaggio del denaro sporco. Nel 1980 verrà arrestato e processato al maxiprocesso istituito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel 1977 anche Dell’Utri decide di lasciare Berlusconi e l’anno successivo troverà lavoro presso la Inim di Rapisarda, legato a mafiosi quale Ciancimino (quello del papello) e i Cuntrera Caruana, i quali sono il massimo del traffico internazionale di droga che lega l’Europa al Sud America. Secondo il pentito Angelo Siino, da quando Dell’Utri ha lasciato Berlusconi, i Pullarà tartassano il Cavaliere con richieste di denaro sempre più stringenti (“volevano tirargli il radicone”, cioè sradicarlo, spennarlo). Non più “regali”, ma “pizzo”. Mangano, in carcere, litiga con Giovan Battista Pullarà perché la sua famiglia si è intromessa nei suoi rapporti con Arcore. Berlusconi a quel punto, richiama Dell’utri alla Fininvest. Dell’Utri viene promosso amministratore delegato e presidente di Publitalia, numero tre del gruppo alla pari con Confalonieri. Dell’Utri riprende le redini della Fininvest e, tramite
Cinà, si lamenta con i corleonesi della condotta dei Pullarà. Si giunge così a un nuovo accordo, raggiunto da Cinà con Pippo Di Napoli che rappresenta Riina. La Fininvest ricomincia a pagare una quota annua (200 milioni), non più a titolo di pizzo, ma di nuovo come contributo amichevole. Riina, furente con i Pullarà perché non l’hanno avvertito di quei rapporti, li scarica e affida a Cinà e Di Napoli la gestione esclusiva delle relazioni col gruppo Berlusconi. Spera così di arrivare a Craxi e dare una lezione alla Dc, non più affidabile come un tempo.
Nel 1991 Mangano esce dal carcere e tenta di riprendersi l’esclusiva dei rapporti con Dell’Utri e Berlusconi. Ma, secondo i pentiti, Riina gli manda il boss della sua famiglia (Porta Nuova), Salvatore Cancemi, a dirgli di farsi da parte perché Dell’Utri e Berlusconi li ha nelle mani lui per il bene di tutta Cosa Nostra. Ma veniamo alla storia recente del rapporto che Berlusconi, ha con la cosche mafiose nel momento in cui infuria tangentopoli vengono assassinati Falcone e Borsellino e i vecchi partiti politici si sciolgono come neve al sole. L’ex democristiano Ezio Cartotto viene ingaggiato in gran segreto da Dell’Utri per studiare un’iniziativa politica della Fininvest in previsione del crollo dei partiti amici. Berlusconi decide di “scendere in campo”. Provenzano (racconta il pentito Giuffrè) stringe un patto con Dell’Utri: fine delle stragi in cambio dell’alleggerimento della pressione poliziesca e giudiziaria, dei sequestri dei beni e della legge sui pentiti. Poi interpella le famiglie mafiose in una sorta di elezioni primarie di Cosa Nostra. E, tra il progetto secessionista di Bagarella e Graviano e quello tradizionale di Dell’Utri e Berlusconi, sceglie il secondo. “Provenzano (racconta Giuffrè) ci disse: Con Dell’Utri siamo in buone mani”. “E ci mettemmo tutti a lavorare per Forza Italia”. Ora veniamo ai fatti di questi giorni. La Corte d’appello di Palermo ha ritenuti rilevanti le parole del pentito Giuseppe Spatuzza che ha accusato Berlusconi di essere il terminale della trattativa tra Stato e mafia nella stagione delle stragi e ammette in aula la testimonianza del pentito. Senza il lodo Alfano e con il lodo Ghedini e alla luca dei fatti che abbiamo visto, di sicuro Berlusconi non starà passando dei bei momenti. Stavolta non si potranno dire le varie bugie del tipo “Mangano era un eroe”, “Mangano non è mai stato condannato per mafia”, “Dell’Utri è una persona stupenda e i giudici che lo accusano devono essere recuperati alla società”, ora gli interlocutori non saranno gli “homini videns” (per dirla con Giovanni Sartori) o quei ragazzetti pidiellini che partecipano ai comizi del premier nella “piazza chiusa” e che battono le mani perché c’è la televisione che li riprende e le mamme a casa sono tanto orgogliose di loro, ora c’è davvero la possibilità di far luce su quel periodo storico che ha cambiato l’Italia. Berlusconi ha dichiarato che anche se sarà condannato resterà al suo posto.
Sarà l’ultima balla? Questo non lo sappiamo, anche perché se vorrà stare al suo posto a tutti i costi, sono sicuro che molti si offrirebbero volontari per costruirgli la cella intorno.
Stefano Poma (collaboratore)
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