L’orfano
Sarà il clima natalizio che spesso e volentieri, alle labbra, fa nascondere i canini, saranno i postumi dell’influenza che per due giorni mi impediva di lasciare il mio letto, sarà il fatto che ora tutti, in coro, parlano di D’Alema come del “capo inciucione” a farmi sentire obbligato a calmare questi “bollenti spiriti” dei falsi rinsaviti dell’ultima ora. Già con lo scoppio di Tangentopoli e con la sucessiva morte declino e suicidio dei vecchi partiti, sia a sinistra che a destra i vari leader della vecchia schiuma estremista avevano un compito: quello di fare i becchini. Per la sinistra ci pensò D’Alema, per la destra Gianfranco Fini. Il romano dovette seppellire il ricordo d’un vecchio comunismo di stampo togliattiano, il secondo un Msi costruito sulla tomba del reduce di Salò Giorgio Almirante. Il D’Alema attuale, in questa nuova casa politica, in questo hotel, in questo orfanotrofio, è ospite. Egli nacque e crebbe ad una formazione di esperienza e di dottrine di partito, non di politica. I nostri nonni, potevano appartenere a un partito senza fare politica, come ad esempio fecero i militanti di Pci e Msi, i quali erano caratterizzati come “partiti antisistema”, cioè dei movimenti ideologici posti all’interno di un sistema nel quale non si riconoscevano. D’Alema ebbe quest’educazione, e quel Pci preparava queste nuove leve a servire non un governo e tanto meno uno Stato, ma il partito, in cui si riassumeva tutta la vicenda politica. Si vollero preparare capi d’un ideologia concepita come una Chiesa in cui si assommavano tutti i poteri, e in cui chi comandava non ammetteva sfregi alla sua autorità, come esempio di quelle purghe staliniane di fine anni 30. Con questo non voglio dire che D’Alema possiede la foto di Stalin sotto al cuscino, ma quella del vecchio Pci si. Da quando esso è crollato, sbanda, naviga su altre sfere, cerca in qualche modo di riportare in vita il cadavere della vecchia concezione di partito, di quella che tanto gli manca. Di quella che B tutte le volte che è in difficoltà elettorale ne tira fuori il simbolo, la falce e il martello. E questo per D’Alema è come un colpo di pugnale a un uomo già a terra. Di che soffre il romano? Soffre della sindrome di Stoccolma. Fraternizza col suo carceriere, col suo padrone, vuol accattivarsene le simpatie per non trovarsi orfano solitario all’interno di quella congrega cosmopolita che è il Pd, e che, come il Pdl e tutte le altre correnti in concorso hanno ridotto il dibattito politico a spettacolo, più che brutto, noioso e ripetitivo. Ormai questi argomenti sono degradati a pettegolezzo di portineria su temi, si direbbe, obbligati ed immutabili: elezioni si o elezioni no, partito dell’amore si o partito dell’amore no, riforme per salvare B si o riforme per salvare B si, ma questa volta con molta meno grazia: prima le vuole subito Berlusconi contro D’ Alema e Bossi che non le vogliono; poi le vuole D’ Alema e finge di volerle anche Bossi contro Berlusconi che non le vuole piu’ . Poi ci sono i pentiti che tirano in ballo il Cavaliere che se ne sente perseguitato e parla di “Stato di polizia” delle toghe rosse. E di tutto questo in che contesto se ne parla? Nei Tg conditi da vari spazi e spazzini pronti a racattare ascolti con tette e culi. E il linguaggio serio politico dove va a finire? Come dice Cruciani a “La zanzara”: “ma di cosa stiamo parlando?”. Leggo oggi stupito che i residui de “Il fatto quotidiano” hanno aspettato la fine del 2009 per assimilare per bene che i nuovi partiti politici sono dei “cartel party”, e che, quando lo scrivevo io, ero solo uno che guardava troppo al futuro. È di questo che si dovrebbe parlare. Di un sistema che ci scivola addosso, che ormai è incomprensibile da capire per chi rimane ancorato ai vecchi sistemi di casta e di palazzo tradizionali. Bisogna modernizzarsi perfino nel linguaggio, poiché è solo quello ora che fa ruotare i voti, in questi tempi di B, in cui la vecchia politica di D’Alema è morta lasciandolo orfano.
Stefano Poma(collaboratore)
Commento all'articolo