Come sono caduti in basso
Nocentini, un italiano in maglia gialla al tour de France. Se non sapete chi è Nocentini, siete scusati. Se non sapete che il tour de France, la corsa ciclistica più importante del mondo, è in corso di svolgimento, siete scusati allo stesso modo.
Come il ciclismo riesca a sopravvivere malgrado ormai sia meno credibile del campionato mondiale di wrestling è un mistero che sinceramente affascina.
Quasi nessuno, tra campioni e gregari, è scampato dalla gogna della squalifica o quantomeno dall’essere finito coinvolto più o meno pesantemente in qualche inchiesta di doping.
Ha ancora senso uno sport del genere? Hanno senso tapponi alpini da 260 km che stroncherebbero una motocicletta, figuriamoci un uomo che deve pedalare per 7 ore? Per poi magari farne altre 7 il giorno successivo?
I ciclisti, periodicamente, gridano alla persecuzione, e dicono sì, noi siamo dopati, ma avete guardato anche da altre parti? Sicuramente il doping è presente in tantissimi sport, ma il ciclismo, uno sport essenzialmente fisico, si presta fin troppo bene alla pratica del doping. Uno scarpone rimane uno scarpone, non c’è doping che possa farti tirare una punizione all’incrocio se si hanno due tombini al posto dei piedi.
Quale sarà il futuro del ciclismo? Sinceramente è difficile vedere la fine del tunnel. Il doping tra i professionisti (del pedale come di qualsiasi altro sport) è solamente la punta dell’iceberg di un business enorme che va a colpire soprattutto i dilettanti, coloro che la domenica vanno a gareggiare per vincere la coppetta da esporre in salotto e da mostrare tronfi agli amici. Difficile estirpare il doping se purtroppo è così radicato fin dalla base.
Ci vorrebbe un nuovo alieno, un Pantani che scala le montagne usando come benzina la pastasciutta e non l’eritropoietina, un campione pulito in grado di battere i dopati e di trionfare a Parigi, tra i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano, tanto per citare una famosa canzone di Paolo Conte.
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