Fenomenologia di Mourinho
Con quella faccia un po’ così, con quella barba un po’ così e con il nodo della cravatta un po’ così, Josè Mourinho a prima vista ricorda un impiegato che ha passato la notte in ufficio davanti alle pratiche e a una tazza di caffè, con lo sguardo sempre rivolto alla sveglia appesa alla parete.
Simpatico quanto Maurizio Belpietro, affabile come Vittorio Feltri, sprigiona la stessa allegria che potrebbe darti il vedere lo scaldabagno di casa tua rompersi un sabato sera di gennaio.
La sua carriera inizia come traduttore (sic!) in alcune società minori per poi iniziare a svilupparsi come vice allenatore di Louis Van Gaal (altro simpaticone) nel Barcellona fino alla stagione 1999-2000.
Stufatosi di questo ruolo di secondo piano, il futuro Special One coglie l’occasione e nel 2002 approda sulla panchina lusitana del Porto con il quale nel giro di un biennio vince tutto: Campionato, Coppa Nazionale, Coppa Uefa e addirittura Champions League.
Sarà proprio la finale del 2004, dominata contro il Monaco allenato da Deschamps, a farlo salire agli onori della cronaca: al fischio finale, invece di festeggiare un risultato storico per i portoghesi, si tolse la medaglia dal collo e, passando in mezzo al Mar Rosso dei fotografi e dei giornalisti, se ne tornò negli spogliatoi con la stessa faccia di uno che ha vinto al Superenalotto e ha dimenticato la schedina nella tasca dei pantaloni messi in lavatrice.
Qualche giorno dopo dichiarò di avere ricevuto delle minacce di morte contro la propria famiglia, cosa mai appurata….
L’estate 2004 segna il suo passaggio al Chelsea di Roman Abramovich e qui costruisce la sua leggenda.
Vince due campionati inglesi con i blues che non conquistavano lo scudetto da 51 anni e porta il Chelsea ai vertici del calcio europeo scontrandosi, però, con lo strapotere di Manchester, Liverpool e Barcellona che in terra d’Albione e d’Europa finiscono per logorare il suo rapporto con il magnate russo a capo della società inglese: Mourinho e il Chelsea entrano in crisi e il tecnico di Setubal, il 20 settembre 2007, è costretto a rassegnare le dimissioni.
Un ottimo tecnico a spasso non può che diventare un’ombra per i tanti colleghi seduti su panchine traballanti e così, in breve tempo, il portoghese diventa un pallino per Massimo Moratti, stufo di Roberto Mancini (altra persona amabile) e dei suoi flop europei.
Mancini si dimette la sera di Inter-Liverpool, dopo l’uscita dei neroazzurri dalla Coppa, ormai conscio della decisione di Moratti di affidare la panchina a Mourinho.
Cambia idea e porta a compimento la stagione con un altro scudetto prima di lasciare la società di via Durini.
Mourinho diventa così il nuovo tecnico dell’Inter e giunge in Italia preceduto dalla sua fama pazientemente costruita e gonfiata dai vari tabloid inglesi che non lo lasciavano in pace per un minuto.
Mourinho, che non è uno sciocco, alla prima conferenza stampa sfoderò un ottimo italiano e la leggendaria frase “io non sono un pirla” con la quale conquistò i favori di tutti i giornalisti “azzerbinati” da settimane: indimenticabile un servizio di Studio Sport firmato da Antonio Bartolomucci il quale, a corredo del filmato dei primi allenamenti del portoghese con l’Inter, disse: “Mourinho stamane ha addirittura guidato la seduta tecnica facendo usare il pallone ai giocatori”.
Immaginatevi gli ohhhhhhhhh di ammirazione per cotanto prodigio tecnico.
A oggi Mourinho siede sulla panchina dell’Inter da due stagioni: ha conquistato una Supercoppa italiana e uno scudetto ma ha subito una cocente eliminazione da parte del Manchester in Coppa nella scorsa stagione.
La fama da predestinato, il suo eloquio non scontato e il suo modo di parlare senza peli sulla lingua hanno dato vita ad aspri scontri con i vari colleghi italiani del mondo del pallone: ad oggi ha “litigato” con Ranieri, Galliani, Spalletti, Lo Monaco, Berretta, Ferrara, Lippi, Ancelotti e Capello…riuscendo nell’impresa di far sembrare Mancini un incrocio tra Winnie the Pooh e Minnie.
Tuttavia i meriti del tecnico portoghese sono innegabili e, in conclusione, li riassumo velocemente:
1) in un mondo di frasi fatte come quello del calcio, ben venga un tecnico che non si nasconde dietro le banalità e ha il coraggio di dire quello che pensa a costo di sembrare insopportabile
2) quando la partita lo richiede è capace di variare completamente l’assetto in campo della squadra, a costo di scelte all’apparenza bizzarre, senza trincerarsi dietro ai soliti cambi o schemi tipici degli allenatori
3) i suoi modi di fare attirano volontariamente tutta la pressione, le critiche e le attenzioni su di lui, lasciando fuori i giocatori dai vari casini mediatici tipici del calcio italiano (solo con Adriano e con Balotelli non è riuscito in questo intento)
Una sola cosa mi chiedo: nella terra che ha dato alle panchine del calcio gente come Vittorio Pozzo, Nereo Rocco, Giovanni Trapattoni, Arrigo Sacchi, Fabio Capello, Marcello Lippi e Carlo Ancelotti, c’era proprio bisogno che i media italiani dipingessero Josè Mourinho come il profeta dell’allenamento, il re della panchina, colui che sarebbe venuto a insegnarci il mestiere?
Serpico (collaboratore)
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