Hanno tutti ragione

Hanno tutti ragione

Esiste un vezzo nel cinema e nella letteratura  italiana, che consiste nell’affastellare immagini, riflessioni emozioni e sentimenti  sostituendo, o mettendo ai margini, l’intreccio narrativo. La voglia di raccontare una storia e adoperarsi affinché questa sia più avvincente e scorrevole possibile non è una priorità, travolta dall’esigenza dell’autore di strabordare, dilatare i sentimenti come un elastico, pontificare ed educare (sic) il lettore o spettatore.
Si prova insomma quasi la vergogna di raccontare una storia, la storia diventa un fastidio, un pretesto per ammorbare lo spettatore, per imboccarlo con la visione del mondo dell’autore. Una letteratura povera rispetto a quella anglosassone, che nonostante le intenzioni non riesce a toccare certe temperature emotive. In un quadro così desolante il successo editoriale delle varie Michela Murgia e di Silvia Avallone ne è la naturale conseguenza, predicatrici del vuoto pneumatico con l’aggravante, almeno per la Murgia, di una spocchia inversamente proporzionale al suo talento.

Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino soffre come non mai dell’ambiente culturale in cui è stato scritto, come lo studente dotato finito in una classe di ritardati, anche lui si siede, si adegua, fa il minimo indispensabile per portare il quadrimestre a casa. Scopre una formula che funziona, l’invettiva filosofica venata qua e la dal sarcasmo, e la ripete pedissequamente lungo tutto il libro, finendolo per appesantire, annacquando anche quello che, almeno inizialmente funzionava.
Tony Pagoda, il cantante da night cocainomane, molla l’Italia per andare in Brasile per poi ritornare nella mai amata patria. La storia è tutta qui, tra qualche aneddoto colorito, tra i vizi disseminati, tra i personaggi non tutti a fuoco e non sempre memorabili, pur con qualche eccezione. E così il lettore scopre a sue spese che il torrenziale sfogo del protagonista è zeppo di aggettivazioni, di metafore, di opinioni sul mondo a volte argute, a volte banali, ma spesso semplicemente ridondanti. Siamo passati inconsapevolmente dall’io narrante al pesantissimo io giudicante. La trama è uno scheletro sottile che si piega sotto il fardello di parole accumulate da Sorrentino, che pure dimostra di avere i mezzi, di saperci fare, perché molte trovate linguistiche sono buone, tante metafore sono vivide e brillanti, ma finisce per eccedere. Ricorda un po’ quei chitarristi che si innamorano di un riuscito riff per spalmarlo lungo tutta la durata del brano. Appesantendolo, rendendolo greve, pretenzioso e, quel che è peggio, rovinando l’incanto iniziale per cedere alla noia. O meglio ancora come quelle mezzali che non si accontentano del primo dribbling riuscito, ma aspettano l’avversario per risaltarlo con un’altra finta e finendo per consegnare il pallone all’avversario. O come questa recensione, che ci infila due metafore di fila al solo scopo di allungare il brodo.
Non basta insomma spargere secchiate di disincanto e cinismo e sperare che dal foglio bianco spunti la risposta italiana de “La versione di Barney”. Bisogna avere una storia da raccontare, possedere la tecnica narrativa per renderla avvincente, creare personaggi vivi e non monodimensionali e, se proprio si vuole, inserirci una morale. L’impressione è che in tanti libri italiani si parta dalla morale, o da un personaggio come in questo caso, gli si aggiunga ciccia, e si confezioni un libro investendo sul marketing, su qualche scandalo o polemica dell’autore. La narrativa però è un’altra cosa.

3 comments

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symbel

Non ho letto il libro ma ne ho letto di simili e ho fatto le stesse considerazioni, suggerisco a questo proposito la lettura di alcuni classici autori del giallo come Rex Stout padre di Nero Wolfe e straordinario narratore. Interessante nel panorama italiano la saga di Walter Serchio, investigatore dei casi impossibili, di cui non ricordo purtroppo il nome dell’autore.

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Masonmerton

Non ho letto il libro, ma ho trovato eccellente la recensione, ed il mio pensiero perfettamente in linea con l'”io recensore” di Sileno.
Pur non avendo letto il libro, restando nel campo pur attaccabile e suscettibile di supeficialità delle generalizzazioni, aggiungerei che, parmi di capire, ancora una volta manca la componente “attiva” dei protagonisti.
E’ questa una cosa che mi fa imbestialire. Trovo terribilmente puerile le connotazioni dei personaggi sempre e solo spettatori passivi della vita. Penso per esempio, rivolgendomi a fenomeni letterari recenti e nostrani, al libro “la solitudine dei numeri primi”. Ottime le inquietudini e le sofferenze, ma possibile che nessuno poi faccia un gesto verso il riscatto di sè stesso, o verso il tentativo di tendere una mano al prossimo, pur magari rischiando di investirlo con un pugno mentre si allunga il braccio?
No, tutti a marcire nel proprio microcosmo e ad osservare e fiutare la propria decomposizione.
Il mondo è pieno di iatture e di meschinità, non lo nego. Ma solo io ho avuto la fortuna di incontrare anche un sacco di gente intelligente, coraggiosa, che ci prova, e che non vede in tutto ciò che lo circonda solo un nemico, o un idiota, o un cristallo che si ha paura di rompere?

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Tex Willer

non ho letto il libro ma ho apprezzato il commento del bellodezzio Mason e ancor prima la splendida recensione del Sileno
…. LOC??
;-))

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