Hybris, malattia dell’anima
Nel giorno del mercoledì delle ceneri, sulle pagine del Foglio Camillo Langone lascia una “preghiera”.
-Sarà interessante, la visione cristianista (che è ben diverso da cristiana) del Foglio è molto interessante-…-ah, il giornale di quel venduto che è passato da Lotta Continua a servo di Berlusconi, ma come si fa a dargli retta?-…-mercoledì delle ceneri, ma ancora qualcuno che nel 2010 si lascia intortare dalla religione?-…-sentiamo, finalmente una preghiera anziché il solito gossip-…
E’ come se riuscissi già a leggerli molti dei vostri pensieri: ho scritto una sola frase, ma sono consapevole che tanto basta per sollevare in ogni lettore plurimi istinti.
Se vorrete, permettetemi di suggerirvi l’esercizio temporaneo di astrarre dalle vostre inclinazioni politiche e religiose, e da preferenze riguardo agli organi di informazione.
Perché dopo un preambolo che potrebbe risultare fastidioso a cattolici come non, ed un riferimento politico evitabile, Camillo Langone regala un pensiero meritevole di riflessione.
Riferendosi al gesto di ricevere in capo le ceneri, dice: E’ il contrario di tingersi:è ingrigirsi. E’ il contrario di fingersi: è autenticarsi. E’ riconoscere il proprio ruolo, non esattamente centrale. Tutto ciò nella giornata mondiale della lotta contro la Hybris, la più grave malattia dell’anima.
Hybris è un termine mutuato dal greco antico, utilizzato nel teatro come nella letteratura. La sua traduzione sarebbe letteralmente “eccesso”, inteso come superbia, prevaricazione, orgoglio. Nella Grecia classica il termine era di uso giuridico per identificare reati non necessariamente contraddistinti da una specifica azione, bensì dalla volontà di umiliazione dell’altro. E per chiudere il cerchio e comprendere definitivamente l’intimo significato del termine, basti ricordare che nella mitologia si macchiava di Hybris colui che osava sfidare gli Dei.
Che siamo o non siamo credenti non fa importanza, quel richiamo alla giornata mondiale della lotta contro la Hybris è un gioiellino che non merita di essere nascosto dietro muri ideologici, fragili come il cartone ma da noi eretti talmente alti da non riuscire a comprenderne la scarsa resistenza.
Hybris è prevaricazione.
E il termine prevaricazione implica l’abuso di un soggetto ai danni di un altro. A volte per puro perverso diletto, più spesso per il raggiungimento di una affermazione personale.
Pure la Hybris non nega l’importanza dell’individualità. La colpa infatti non risiede nel ricercare un continuo miglioramento e affermazione di sé stesso. Essa viene individuata solo ed esclusivamente nella tracotanza: in senso assoluto (sfidare Dio nella visione classica, eccesso di egocentrismo ed esibizionismo nel più banale quotidiano), o in senso relativo se ottenuto tramite umiliazione di altri.
Il richiamo alla lotta contro la Hybris definita come “la più grave malattia dell’anima” è un monito contro chi cerca la felicità come pure appagamento di sé. Una vittoria che resterebbe confinata nell’isolamento del proprio ego.
Lord Byron sosteneva che “tutti coloro che conquistano la felicità dovranno dividerla, poiché la felicità è nata gemella”. Ma con chi condivideremo questa felicità se essa nasce da una pulsione puramente egoista? Finiremmo con il secernere nuova infelicità, anche perché, come scriveva Francis Scott Fitzgerald, “quando si è soli nel corpo e nello spirito si ha bisogno di solitudine, e la solitudine genera altra solitudine”.
L’idea della lotta alla Hybris non deve risiedere altro che nella consapevolezza che la ricerca della felicità non deve limitarsi a percorrere unicamente la strada dell’Ego.
Alla visione del film “La ricerca della felicità” chi scrive non nega che fece seguire un fiume inaspettato di lacrime (ma tante! E i precedenti film di Muccino non mi avevano entusiasmato). A smuovere le acque (mie, interiori) non furono le peripezie, i dolori, le umiliazioni del personaggio interpretato da Will Smith. Né un sentimento di rivalsa e appagamento per la costanza, coraggio e dedizione con le quali l’uomo aveva raggiunto il successo. Ma la consapevolezza di aver chiuso un capitolo disumano di sofferenza, precarietà e instabilità nella crescita del figlio, che da quel momento avrebbe potuto conoscere stabilità e serenità come la cornice dell’amore del padre.
Quella felicità era autentica, e non era per sé stesso: era per suo figlio.
Forse sono (o suonano, onestamente non lo so) troppo da “penitente” le parole di Langone. Autenticarsi potrebbe voler dire proprio rivendicare il proprio ruolo centrale in questo mondo.
Dono di Dio, o di Chtulhu, o frutto del Kaos che vogliate, siamo stati accessoriati di anima rivestita da un corpo. Quello stesso Dio o Kaos ci ha investito della responsabilità e unicità di poter scegliere come disporne.
Riconoscere la Hybris come grave malattia dell’anima mi sembra un buon inizio.
Masonmerton (collaboratore)
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