Impuniti impotenti imputati

Impuniti impotenti imputati

 La giustizia, le giustizie, seguono tutte il loro corso. Non fatto di verità certe tanto da permetterci di tentare la roulette russa o da mettere la mano sul fuoco, ma della più veritiera possibile. Nemmeno dopo il terzo grado di giudizio si ha la certezza d’aver fatto luce su ciò per cui ci si è affacendati. Dall’apertura del fascicolo, alla sentenza, ci stanno le supposizioni, le parole, gli interessi delle parti chiamate in causa sia direttamente che indirettamente. In mezzo a tutto queste c’è l’opinione pubblica, la quale, si fa le proprie idee su quelle questioni, e, il vero problema, è l’esistenza di giornalisti che riescono a sparare boiate del tipo “nel sistema giudiziario c’è qualcosa che non va”, e, il pelato direttore del Tg1 Minzolini alias Scodinzolini, è uno degli esempi di come il mondo dell’informazione sia deviato e inquinato. Il danno è assai grave. Questo perché durante un processo come (uno a caso) quello di Dell’Utri, questi mascalzoni della finta informazione, interpretano i fatti al pubblico in modo da compiacere l’amato padrone. Loro potranno pure dire “lo debbo fà, tengo famiglia e se deve magnà”. Ho avuto un sobbalzo nel sentire le parole di D’Alema, “Graviano non è un pentito, Spatuzza si”. Che il bravo baffetto abbia voluto dare una mano a chi dovrebbe spiegare al 99 percento della popolazione, che non possiede una laurea in giurisprudenza, la differenza tra le due cose? Graviano non è un collaboratore di giustizia, Spatuzza sì. E in nessuna occasione si è mai sentito un boss accreditare le dichiarazioni di un collaboratore,altrimenti, sarebbe un collaboratore a sua volta. Ma il picciotto in questione, non lo è. Testis unus, testis nullus. Certe luci si accendono sui fatti solo dopo la fine di quel periodo storico, come celebrazione delle cose morte, cosa a cui noi, siamo molto abituati. Le verità su B e la mafia si scopriranno solo quando il PdC sarà chiuso all’interno del suo mausoleo funerario egizio nella villa di Arcore, e, quando la terza Repubblica, lascerà il posto alla quarta. Certi nodi arrivano tardi al pettine, troppo tardi. Possono passare anche 40 anni, decine di nuove inchieste, centinaia e centinaia di deposizioni e indagini, ma, “ab uno disce omnis”. Mi riferisco, ovviamente, alla strage di Piazza Fontana. Eppure, i colpevoli, unanimamente nelle varie aule di tribunale, ci sono. Quelle stragi furono materialmente commesse dai gruppi terroristici della destra neofascista, Ordine Nuovo in primis, il gruppo neonazista fondato nel 1956 da Pino Rauti, armato e finanziato dagli apparati di sicurezza italiani ed americani. Un nome nei fascicoli dei pm rieccheggia più di altri, ed’è quello di Giulio Andreotti. Il senatore romano, fu dal 1959 al 1966, ministro della difesa, e cioè in quegli anni dove il terrore per un’eventuale comunismo era maggiore di quello d’un eventuale fascismo. Nell’Esercito, sotto la sua gestione, furono, nei primissimi anni 60, promossi i cosiddetti “corsi di ardimento”, un tentativo di ideologizzare i soldati all’insegna del più forte anticomunismo. Da lui dipesero i servizi segreti militari, il SIFAR prima ed il SID poi, proprio negli anni in cui il generale De Lorenzo pianificava un colpo di Stato. Al servizio del generale vennero reclutate schiere di neofascisti ed intere filiere di vecchi arnesi della Repubblica Sociale Italiana. Ne fanno fede ormai moltissime testimonianze ed atti documentali, per altro recuperati proprio negli archivi degli stessi servizi, a testimonianza di uno slittamento fuori dalla legalità costituzionale di interi scomparti dello Stato. Dalle carte processuali, proprio dell’ultimo processo per la strage di Piazza Fontana, è emerso un lunghissimo elenco di agenti del SID, dell’Ufficio Affari Riservati e delle basi NATO, al contempo dirigenti di Ordine Nuovo, soprattutto nel Veneto, contrassegnati ciascuno dal proprio nome in codice: “fonte Mambo”, fonte “Turco”, fonte “Tritone”, e via dicendo. Ovviamente anche Pino Rauti, ha avuto modo di dichiarare di non aver mai saputo mai nulla di tutto ciò. Ecco perché le indagini furono depistate, sia dai servizi segreti sia dal ministero dell’interno sulla pista anarchica anziché su quella dell’estrema destra. Tutto cominciò sulla base d’una dichiarazione di un tassista, Rolandi, il quale disse d’aver accompagnato alla stazione Valpreda, ballerino e anarchico, predicatore della lotta armata. Sul tavolo degli imputati salì anche il ferroviere anarchico Pinelli, precipitato da una finestra della questora di Milano, in circostanze mistoriose il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo l’attentato. Per lui, le faccende giudiziarie sono finite, ma, siccome era un anarchico, su di lui, le luci non si accenderanno. Nemmeno dopo morto.

Stefano Poma (collaboratore)

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