Vincere!

Vincere!

Nei grandi entusiasmi e nelle grandi sciagure, si sa, pochi mantengono la testa sul collo. Quando poi si viene, da diciotto anni, venerati a ‘mo di santo, è ancora più difficile avere razionalità. In sociologia vige un principio, il principio di Peter, il quale pone nell’individuo che ne è colpito, un freno, un’incapacità nel salire l’ultimo gradino della scala, dopo che è stata percorsa precedentemente senza fatica. Questo poiché ogni gradino rappresenta una responsabilità, una carica, che sommate le une alle altre, pesano sul groppone dell’individuo e non lo rendono più adeguato a quell’incarico. Quest’incarico era quello del Duce, Mussolini. Per lui però, discorso a parte, poiché il principio di Peter, per il romagnolo, avrebbe funzionato al contrario, e cioè gli avrebbe fatto discendere un gradino, per porci un altro uomo, il Fuhrer. Proprio “quell’idiota di Berlino”, come definito da Mussolini dopo il mancato “putch di Monaco”, fallito dall’austriaco la notte dell’8 novembre 1923. Ma quelli erano altri tempi. Hitler non veniva preso sul serio, passava più che tanto come un pazzo coi baffetti alla Charlie Chaplin, piuttosto che come un pericoloso dittatore. Ma noi lo sappiamo, dopo le crisi e dopo le sciagure, le democrazie si puntano una pistola alla tempia e premono il grilletto. E così fece la Repubblica di Weimar. E se lo ricordino bene questo i tanti denigratori del Fuhrer, quelli che si limitano a dire “Hitler era cattivo” senza dare spiegazione a quell’evento che cambiò il mondo. Hitler, si è limitato a prendere le misure d’una Repubblica di Weimar defunta per costruirle una bara, dopodichè ha semplicemente preso una pala, scavato una fossa, e interrato un sistema democratico incapace di sormontare la crisi. Così come fece Mussolini in Italia tra il 22 e il 25. Le premesse per una eventuale dittatura del Duce esistevano già dal suo discorso d’insediamento a Palazzo Chigi quando alla Camera, scandì che “potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti, potevo, ma non ho almeno in questo primo tempo, voluto”. “Almeno in questo primo tempo”, e perché dopo questa minaccia il sistema democratico non è insorto? Semplice, stava sottoterra coi vermi. E forse, dico forse, sarebbe anch’oggi interrato, se non fosse per quelle sciagurate decisioni prese dal Duce in quell’inizio estate del 1940, che hanno permesso al sistema democratico di risorgere, a ‘mo di zombi. Tutti quelli vicini al Duce con la testa sul collo, gli sconsigliavano l’entrata in guerra. Sia gli amici che i nemici. Sia i generali Badoglio e Graziani, narranti in coro che “non saremo pronti per la guerra prima del 1944”, sia il Re “s’illudono coloro che parlano di guerra breve e facile, ci sono ancora molte incognite e l’orizzonte è molto diverso da quello del maggio del ‘15”, sia i vari Ciano, Balbo, Grandi, Bottai, nonché la maggior parte del popolo italiano “pensante”. Ma il Duce è scontento nel vedere il suo allievo conquistare mezza Europa e scrivere la storia, quindi decide che vuole anche per se la guerra, la quale verrà pianificata quel famoso 2 aprile in quel Consiglio dei Ministri, dove si esprimerà in senso bellicista. Premette che la guerra potrà aver luogo in qualsiasi momento ed escludendo di “fare le puttane con le democrazie, il che del resto ci metterebbe in conflitto coi tedeschi” nonché di rimanere neutrali “il che declasserebbe l’Italia per un secolo come grande potenza e per l’eternità come Regime Fascista”, conclude dicendo che “marceremo coi tedeschi, per fini nostri”. Da quel momento al 10 giugno, fu un crocevia d’intrecci diplomatici. Percy Loraine ambasciatore inglese, Francois Poncet ambasciatore francese, William Phillips ambasciatore americano, pregano in ginocchio il Duce tramite il suo ministro degli esteri Ciano, di non entrare in guerra. Dal primo, arrivavano proposte “morali” e territoriali, quale riconoscimento dell’Italia come grande potenza e il controllo del canale di Suez. Dal secondo, il più preoccupato dato che la Francia colava a picco sotto le cannonate tedesche, addirittura la Tunisia e l’Algeria. Mussolini, categorico, non farà la puttana con le democrazie. Arriverà perfino ad attaccare il Papa il quale in quei giorni aveva inviato ai tre sovrani di Belgio, Olanda e Lussemburgo, invasi dai tedeschi, dei telegrammi di simpatia. Mussolini indignato, vorrebbe mettere un alto là al Vaticano, disposto com’è alle estreme conseguenze. Il Duce in quei giorni ripeterà spesso che “il Papato è il cancro che rode la nostra vita nazionale, e io intendo liquidare questo problema una volta per tutte. Non creda il Papa di cercare alleanze nella Monarchia, perché sono pronto a far saltare le due cose insieme. Bastano le sette città della Romagna per far fuori contemporaneamente Papa e Re”. Mussolini ha deciso, si entrerà in guerra l’11 giugno. Anche il Re trovò buona quella data, sia perché era la data della sua nascita, e sia perché da recluta, fu immatricolato sotto il numero 1111. Ormai che la spada sta per essere snudata, il Re, come tutti i Savoia, si prepara ad essere un soldato e soltanto un soldato. 10 giugno, dichiarazione di guerra. Il ministro degli esteri Ciano, per primo riceve l’ambasciatore francese Poncet, il quale cercava di non tradire la sua emozione. Gli disse: “Probabilmente avete già compreso le ragioni della mia chiamata”. Rispose l’ambasciaotre: “benchè io sia poco intelligente, questa volta ho capito”. Dopo aver ascoltato la dichiarazione di guerra replicò: “è un colpo di pugnale ad un uomo in terra, vi ringrazio comunque di aver usato il guanto di velluto”. Continuò dicendo che lui aveva previsto tutto ciò da due anni, e non aveva più sperato di evitarlo dopo la firma del Patto d’acciaio. Non si rassegnava a considerare Ciano un nemico, né poteva considerare tale nessun italiano. Poiché per l’avvenire bisognava ritrovare una formula di vita europea, augurava che tra l’Italia e la Francia non venisse scavato un solco incolmabile. “I tedeschi sono padroni duri. Ve ne accorgerete anche voi”. Ciano non rispose, non gli sembrò il momento per polemizzare. “Non vi fate ammazzare”, concluse l’ambasciatore accennando all’uniforme di aviatore del ministro, mentre gli strinse la mano. Più laconico e imperturbabile Sir Percy Loraine, ambasciatore inglese. Accolse la comunicazione senza battere ciglio né impallidire. Chiese se era un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. “La seconda”, secco Ciano, il quale nel suo diario scrisse quel giorno, mentre il Duce annunciava di dar fuoco alle polveri: “Mussolini, parla dal balcone di Palazzo Venezia. La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste, molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia”.

Stefano Poma (collaboratore)

7 comments

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kmila

me parece que tienes mucho talento para escrbir politica, tienes inspiracion y todo lo que necesita un escritor para ser exitoso, ademas eres una excelente persona.
te felicitoooo!!
un beso

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Hal 9000

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Gion Puligher

Dear Mr Poma, a very biutiful articol compliments. I like your mod of scrivs.

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Mustapha Marrahzz

الله è غراندي ، بوما نقية

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Damiano

Ma chi sono questi qui???

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mc lol

Rwy’n hollol cytuno â’r hyn meddai Poma.
Rwy’n credu nad oes angen am fwy fascism
Eidal.

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kasparov lienin

Нават у нас тут, у Расіі мы, да жаль, бачыў той шкоду, які могуць унесці дыктатуры. Дэмакратыя уяўляе сабой ключавую каштоўнасць, якую мы не можам адмовіцца.

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